I MILLE COLORI DEL PERU’. Il viaggio è stato ineccepibile su ogni cosa: l’organizzazione, l’assistenza puntuale in ogni spostamento, le guide, gli alberghi e i ristoranti.

I MILLE COLORI DEL PERU’. Il viaggio è stato ineccepibile su ogni cosa: l’organizzazione, l’assistenza puntuale in ogni spostamento, le guide, gli alberghi e i ristoranti.

Viaggio in Perù dal 16 ottobre al 1° novembre 2009. Il viaggio è stato ineccepibile su ogni cosa: l’organizzazione del viaggio, l’assistenza puntuale in ogni spostamento, le guide, gli alberghi e i ristoranti. E’ stato uno dei miei migliori viaggi. Lo consiglio senza riserve. Per quanto riguarda l’adattamento all’altitudine, l’esperienza è individuale. Si sente la fatica, ma un po’ di riposo risolve il problema.

Viaggio organizzato da “MUNDO ESCONDIDO”

PARTECIPANTI 12 persone:

Nietta e Mariola (Sciacca)
Maria Elena e Valentina (Sciacca)
Rosalba (Palermo)
Inoltre:
Tatiana e Luigi (Milano)
Tiziana e Marco (Roma)
Angelo (Vicenza)
Mara ed Eliana (Bolzano)

1° e 2° giorno – 16 ott. venerdì e 17 ott. sabato- Maria Elena, Valentina, Mariola ed io partiamo da Sciacca con un pulmino alle ore 12,20 per l’aeroporto di Palermo, dove incontriamo Rosalba che si unisce a noi. Incontreremo altri partecipanti al viaggio a Madrid e a Lima.
Ore 15,45 – Decollo con volo Alitalia 1792 e atterraggio a Roma Fiumicino alle ore 16,30.
Presi i bagagli, passiamo nell’area internazionale di Fiumicino, dove facciamo il chek-in per Madrid e per Lima, con la compagnia Iberia.
Ore 19,40 – Decollo da Fiumicino per Madrid, dove atterriamo alle ore 21,30.

                                                                                            Aeroporto di Madrid Barajas – T4
Nota: T4 (Terminal 4) è diventato operativo il 5 febbraio 2006, trasformando così l’aeroporto di Madrid Barajas nel più grande aeroporto del mondo per superficie dei terminal, con un milione di metri quadri distribuiti tra T1, T2, T3, T4 e T4-S e centoquattro uscite d’imbarco diretto.
Il volo da Madrid a Lima dura 11 ore e mezzo. Il decollo avviene alle ore 00,55 del giorno 17 ottobre, sabato.
Alle ore 2,30 locali ci offrono il pranzo.Ore 7,00 – Se fossi a casa in Italia sarei già alzata a preparare il caffé; ma ora, sull’aereo, a 10.400 m di altezza, siamo in piena notte. Mancano altre 5 ore all’arrivo a Lima, dove l’orologio segnerà le ore 6,00 del mattino.
Alla luce delle lampadine compiliamo il modulo del visto di ingresso richiesto.
Ore 11,00 (ora italiana) – colazione: uovo strapazzato, yogurt, marmellata, burro, panino, macedonia, aranciata, caffé.
Atterraggio a Lima alle ore it. 12,55; ma a Lima sono le ore 5,20 del mattino.
Un minibus ci accompagna all’albergo Hacienda. Durante il tragitto due malviventi, approfittando di una sosta a causa del traffico, tentano di sfondare due finestrini per rubarci le borse.

Trascorriamo la mattinata liberamente, senza guida. Noi del gruppo di Sciacca, compresa Rosalba, camminiamo fino ad arrivare alla vista dell’Oceano Pacifico, non molto distante dall’albergo, nel quartiere Miraflores.
Ore 11,30 pranziamo in un bel ristorante con veduta sull’Oceano: pesce grigliato e insalata. Poiché in albergo (“La Hacienda”) le camere non sono ancora libere, trascorriamo fuori tutta la mattinata.
Ore 13,00 – Ci vengono assegnate le camere e alle ore 14,00, con la guida Dora, visitiamo la Piazza delle Armi con la Cattedrale, il Palazzo di Pizarro (oggi Palazzo del Presidente della Repubblica), il Palazzo Comunale.

Poi visitiamo la Chiesa di San Francesco con uno dei cinque chiostri (prima ce n’erano sette), con le pareti rivestite di azulejos. Interessanti le catacombe sotto la chiesa, che servivano da cimitero, il coro e il leggio girevole.Importante la biblioteca, con libri di notevoli dimensioni, scritti in latino, usati sul leggio girevole. Con i suoi 25 mila volumi, è stata dichiarata patrimonio dell’Umanità. I volumi sono in stato di deterioramento per l’umidità del clima e per le tarme.
All’uscita acquisto due zucche dipinte a forma di uccello.
Riprendiamo il nostro piccolo autobus che percorre la via Arequipa, che è la più importante della città di Lima. Jesus ci indica su una collina alta 500 m il quartiere di San Cristoforo, dove spiccano le case multicolori.
A Lima ( oltre 8 milioni di abitanti) ci sono 45 quartieri con 45 sindaci. Al di sopra di tutti è il sindaco del centro storico.
Ci fermiamo nel Parco degli innamorati, nel quartiere Miraflores, dove spicca una gigantesca statua di terracotta chiamata “el beso” (il bacio), che ritrae una coppia di corpulenti innamorati.

         Lima, la statua “El beso” nel parco degli innamorati

Il parco si affaccia sull’oceano, dove numerosi surfisti si divertono a cavalcare le onde, nonostante la bassa temperatura dell’acqua , che non supera mai i 14 gradi.
3° giorno – 18 ottobre domenicaDopo colazione io e Mariola usciamo da sole per comprare acqua, pile per la fotocamera e un deodorante.
Ore 10,00 – La giovane e neomamma Cintia Mimbela, corrispondente locale di Mundo Escondido, ci affida ad una guida locale parlante italiano, Jesus Torres , che in autobus ci accompagna al Museo dell’ Oro di Lima (museo privato), fondato da “Miguel Mujica Gallo”, dove ammiriamo una favolosa raccolta di oggetti in oro, argento e pietre preziose appartenuti alle differenti culture pre-colombiane che fiorirono più di 3000 anni fa in differenti regioni dell’attuale Perù. Il museo ospita oggetti d’oro unici, alcuni appartenuti agli imperatori inca o ai numerosi governatori locali; tra questi il famoso Tumi, un coltello cerimoniale, che era utilizzato durante numerosi rituali.
 
                                                                                                             Museo dell’ Oro di Lima
Dopo la visita al Museo dell’Oro partiamo col nostro piccolo autobus per Paracas accompagnati ancora da Jesus Torres. E’ un piccolo uomo di circa 40 anni, di etnia quecha, pelle olivastra, capelli neri lucidi, occhi a mandorla.
E’ molto disponibile con noi e non si risparmia nel rispondere alle nostre domande e nel farci capire la cultura peruviana, un miscuglio di tradizioni pagane e di cattolicesimo imposto dagli spagnoli. Jesus, per spiegarci come viene intesa la religione cattolica in Perù, dice che il cattolicesimo è l’involucro e le tradizioni andine sono il contenuto.
I peruviani di oggi, come quelli di migliaia di anni fa, hanno il massimo rispetto per la pachamama, che significa in lingua quecha “Madre terra”. Le cime dei monti sono i suoi seni, i fiumi il suo latte di vita e i campi sono il suo fertile grembo. Pachamama dunque è la generosa Dea della fertilità e dell’agricoltura, madre nutriente che dà la vita, ma altrettanto può mostrare il suo lato crudele quando produce terremoti per ricordare ai suoi figli che devono sempre onorarla. E i peruviani oggi, a qualsiasi etnia appartengano, nutrono il massimo rispetto per la nostra Madre Terra.
Quando gli spagnoli nel 1532 occuparono la loro terra, cercarono avidamente le miniere d’oro, che non c’erano. Tutto l’oro usato dai peruviani precolombiani, non era strappato alle viscere della terra, ma trovato nelle acque dell’Amazzonia, quindi considerato come un dono di Pachamama. Gli uomini non conoscevano ancora i metalli e usavano l’ossidiana come arma da taglio: appresero il duro lavoro della miniera dagli spagnoli. Scavare nella terra per loro significava violentarla. Questa sacralità della Terra è estranea alla mentalità occidentale.
Mentre Jesus parla, osserviamo il paesaggio intorno a noi: è un deserto che sembra non avere fine. Percorriamo la strada panamericana, che si estende dall’Alaska fino al Cile per una lunghezza totale di 45.000 km. Da un lato vediamo l’Oceano Pacifico, dall’altra una estesa fascia desertica e quasi sempre sabbiosa. Anche Lima si estende sul deserto. E’ impressionante vedere le favelas, costruite dai disperati che si trasferiscono nella capitale in cerca di un futuro migliore. L’occupazione del terreno è abusiva; e quando l’occupazione è massiccia, interviene il governo portandovi l’acqua e le fogne. Cosi la città si estende ancora di più. Jesus ci mostra un quadrato di deserto, dove sono stati piantati degli alberi: ci spiega che con la coltivazione degli alberi lo Stato vuole impedire l’occupazione abusiva per le costruzioni. Per la crescita degli alberi viene utilizzata l’acqua dei fiumi provenienti dalla vicina catena delle Ande.
Sono 54 i fiumi che si versano nel Pacifico, ma le loro acque non vengono sfruttate per l’irrigazione, per l’alto costo che comporterebbe il loro impiego.
E’ strano vedere un grande deserto che arriva fino al mare. Sulla costa non piove mai a causa della fredda corrente marina di Humboldt che fa sì che le temperature dell’acqua lungo la costa occidentale del Sud America siano mediamente inferiori di 7°- 8° rispetto alla temperatura dell’acqua alla stessa latitudine nelle aree dell’Oceano Pacifico più lontane dalla costa. Questo provoca anche un abbassamento della temperatura dell’aria riducendo le precipitazioni e facendo sì che le aree costiere siano aride e desertiche.
Oggi non è prevista una sosta per il pranzo; pertanto Jesus ci consiglia di fermarci al primo villaggio che incontriamo per comprare della frutta: compriamo mandaranci provenienti dall’Amazzonia, banane, manghi, e un frutto mai visto prima, rotondo chiaro con strisce viola delle dimensioni di un’arancia.
Passiamo, senza fermarci, per la città di Chincha (pron. Cincia), dove vivono parecchi discendenti di famiglie italiane. Infatti molte insegne di negozi portano un cognome italiano. Qui e nella città di Cañete ci sono incroci di negri e indios (mamelucchi) e di negri e bianchi (sambo).

                                                                                                              Tambo Colorado

Facciamo una sosta presso il sito archeologico di “Tambo Colorado”, un tempo importante centro amministrativo inca. Gli edifici non hanno più i tetti e le decorazioni murarie esterne mostrano segni ci colorazioni rosse e gialle. E’ uno dei siti meglio conservati del Perù.

Alle ore 18,00 circa arriviamo a Paracas, nell’Hotel Mirador, di fronte all’oceano. Ottima la cena con branzino, patate e insalata.

4° giorno – 19 ottobre lunedì

In mattinata lasciamo l’albergo diretti al porticciolo di Paracas, dove ci imbarchiamo su un motoscafo per raggiungere le isole Ballestas,che sono uno dei parchi marini più interessanti del pianeta, abitate da 160 specie di uccelli che vi nidificano e depongono le uova e da otarie che innumerevoli latrano incessantemente sdraiate sugli scogli o tuffandosi in mare.
Un guasto al motore ci costringe a fermarci in mezzo al mare, prima di avvicinarci alla meta. Invano qualcuno cerca di scoprire la causa del guasto per ripararlo. Stiamo fermi per circa un’ora in mezzo al mare. Di tanto in tanto avvistiamo dei delfini che si avvicinano alla nostra barca e poi scompaiono sott’acqua prima di scattare le foto. Poi arriva un altro motoscafo, sul quale ci trasferiamo. Man mano che ci avviciniamo alle isole sentiamo il frastuono degli uccelli che volteggiano sulle nostre teste. Jesus li indica e ne dice il nome. Avvistiamo i pinguini arrampicati sulle rocce e tantissime otarie ammassate sulla spiaggia.

                                                                                                   Otarie ammassate sulla spiaggia
Giriamo intorno alle isole fotografando quasi a gara grotte, anfratti, e uccelli e uccelli in volo o fermi sulle rocce. E’ bellissimo vedere un luogo così, non disturbato dall’uomo, dove gli animali sembrano vivere felici. Disturba il nostro naso il forte odore di guano, che si accumula in gran quantità e che periodicamente viene tolto e utilizzato come fertilizzante dagli agricoltori.

Giriamo più volte intorno ai vari isolotti, poi ci avviciniamo alle pendici di una montagna nella baia di Paracas, su cui è tracciata la figura gigantesca di un candelabro misterioso.

Nessuno fino ad ora ha scoperto chi disegnò questa immensa figura né il perché. Esistono numerose ipotesi a riguardo che mirano a dimostrare una relazione tra il candelabro e le Linee di Nacza, situate a 120 km a sud di Paracas; altre invece vedono nell’enorme figura una sorta di punto di riferimento utile alla navigazione, utilizzato come guida tra le impenetrabili nebbie della zona.

Tornati in albergo, a Paracas, riprendiamo le nostre valigie e proseguiamo il viaggio per Ica, percorrendo la strada panamericana, che è come un nastro di asfalto nel giallo del deserto.
Il paesaggio è sempre uguale, come quello di ieri; perciò viaggio con gli occhi chiusi, ricordando un percorso simile, fatto l’anno scorso nel Gran Deserto del Tar in India.
Appena scesi dal nostro autobus a Ica, in una strada stretta tra la città e le imponenti dune di sabbia, ci viene proposta una corsa tra le dune su delle macchine apposite chiamate “dune buggy”, localmente chiamate “tubolares”.

                                                                                     Maria Elena con l’autista del tubolares
L’esperienza per noi nuova e imprevista ci eccita. Quasi tutti accettiamo di farla. Ci sistemiamo in gruppo nei sedili dei tubolares, legati con speciali cinture di sicurezza che passano sul petto e tra le gambe, e iniziamo la nostra avventura tra le dune, mai viste prima d’ora, che offrono un meraviglioso panorama insieme alla vista delle Ande. Il bravo autista scorazza salendo sulle sommità delle dune e poi scendendo in picchiata in basso, curvando velocemente e sballottandoci o a destra o a sinistra, facendoci sobbalzare e gridare per l’emozione. Ogni tanto l’autista si ferma e ci fa scendere per scattare delle foto e per permettere alle due ragazze più giovani, Maria Elena e Valentina, di provare l’esperienza delle scivolate sui “sand board”, che sono delle tavole su cui distendersi a pancia in giù per gettarsi dalla cima di una duna e fermarsi quando finisce la discesa.
                                                                           Nascosta dalle dune ci appare la bella oasi di Huacachina
Dopo un ottimo pranzo a Ica, si parte per un’altra esperienza emozionante: la meta è Nazca, famosa per le sue misteriose linee, che si possono vedere soltanto dall’aereo. Il paesaggio, desertico, limitato dalle Ande, è stupendo. Lungo la strada ci fermiamo presso una scala di ferro molto alta, che ci consente, in cima, di vedere due disegni tracciati sul suolo. E’ il primo assaggio di quello che vedremo domani mattina. Presso la scala un venditore espone sulla sua bancarella delle pietre col le incisioni dei disegni più famosi. Io ne acquisto tre per pochi soles.Alle ore 18,30 circa arriviamo nella città di Nazsca, nell’Hotel Casa Andina.
Accanto alla porta di ingresso troviamo su un tavolino due grossi thermos contenenti uno il tè di coca, necessario per attutire il mal di montagna, l’altro caffé. La curiosità mi spinge a bere il primo (i peruviani lo chiamano maté). Senza zucchero è amarognolo; con lo zucchero mi ricorda la camomilla.
5° giorno – 20 ottobre martedìSubito dopo la colazione partiamo per l’aerodromo di Nazsca per l’atteso sorvolo.
Tanti piccoli aerei Cessna sono allineati, pronti a decollare dall’altopiano. Il pilota e l’assistente ci fanno salire su un aereo con 12 posti (ce ne sono di più piccoli) e decolliamo con viva emozione, guardando il deserto sottostante per individuare i disegni e fotografare. All’inizio vediamo solo linee senza significato: è l’assistente che ci indica, ora a destra, ora a sinistra, le figure più note: l’astronauta, la balena, il pappagallo, la scimmia, la lucertola lunga più di 180 metri, il colibrì, il condor e l’enorme ragno lungo circa 45 metri.
Le oltre 13.000 linee formano più di 800 disegni.
                                                                                                                 La scimmia
Mi ero preparata abbastanza sull’argomento prima del viaggio, guardando vari documentari, senza però scoprire il mistero che le avvolge. Sappiamo come sono state disegnate sull’altopiano desertico: rimuovendo le pietre, contenenti ossido di ferro, dalla superficie del deserto, lasciando così un contrasto con il pietrisco sottostante, più chiaro. Si suppone che siano state tracciate dalla popolazione Nazsca tra il 300 a.C e il 500 d.C.
Questi disegni sono la testimonianza di conoscenze geometriche ed astronomiche tanto più inspiegabili in quanto le figure sono visibili solo dal cielo.
Tutte le ipotesi finora avanzate sulla funzione delle linee non mi sembrano plausibili, anzi mi sembrano elucubrazioni fantasiose:Le linee sono state tracciate dagli UFO;
indicano le costellazioni;seguono i corsi d’acqua sotterranei;

sono dei percorsi da fare durante certi riti religiosi;
poiché si vedono solo dall’alto, probabilmente i Nazca avevano costruito un pallone aerostatico per vederle; ecc. ecc.
Il sorvolo dura mezz’ora: rimaniamo ancora un po’ a bighellonare intorno alle bancarelle, nei pressi dell’aerodromo. Compriamo volentieri in Perù, sia perché siamo attratti dall’artigianato indigeno, sia perché i prezzi sono bassi. Vorremmo comprare tutto il Perù se non ci trattenesse il limite del peso della valigia.
Tornati nell’albergo di Nazsca, liberiamo le stanze raggruppando i nostri bagagli in uno stanzino e ci rechiamo in autobus nel deserto di Nazca a visitare la necropoli di Chaucilla
(pron. Ciaucilla), a circa 28 km a sud-est della città di Nazca. La necropoli risale a più di 1000 anni fa e appartiene al periodo dominato dalla cultura Ica-Chincha. Per molti anni è stata sistematicamente saccheggiata da profanatori di tombe che, avidi di tesori, la distrussero quasi completamente e si appropriarono di numerosi manufatti celati nelle sepolture. I saccheggiatori di Chaucilla lasciarono dopo il loro passaggio solamente spogli cadaveri e tombe distrutte. I resti umani lasciati dopo i saccheggi ancora oggi sono visibili sulla superficie del deserto, insieme a frammenti di ceramiche e reperti di origine pre-incaica.
La temperatura è alta nel deserto e il sole brucia la pelle, che diventa rossa.
Pranziamo in un ristorante della città mentre alcuni suonatori ci fanno ascoltare la musica peruviana per pochi spiccioli. Dopo pranzo Jesus ci accompagna nell’albergo “Casa Andina” e si congeda da noi per tornarsene a Lima.
Ci attende una dura nottata di viaggio su un grande autobus a due piani che parte ogni sera alle ore 22 e arriva ad Arequipa l’indomani mattina. Nel piano basso ci sono solo nove posti letti; nel primo piano ci sono le poltrone reclinabili, come sull’aereo. Una hostess ci offre un panino e una bibita e ci sistemiamo per dormire. Le tendine sono chiuse e le luci spente. Io sonnecchio. Ogni tanto scosto le tendine del finestrino per sbirciare fuori, ma c’è un buio pesto che non fa vedere nulla. Tento di riaddormentarmi fin quando si fa l’alba e filtra un po’ di luce dalle tendine un po’ scostate. Chissà quanti chilometri abbiamo percorso?6° giorno – 21 ottobre mercoledìGuardo l’orologio: sono le cinque e mezzo. Non tutti i passeggeri sono svegli.
Il paesaggio è un altopiano desertico e disabitato, per lo più sabbioso. talvolta nelle valli appare il verde delle coltivazioni.
Alle sette arriviamo ad Arequipa, dopo nove ore di viaggio Troviamo ad attenderci con un cartello un’altra guida. Si chiama Miguel.

Ci raduna su un autobus insieme ai nostri bagagli e ci accompagna nell’albergo “Casa Andina” di Arequipa. Depositate le valigie, iniziamo a fare il giro della città accompagnati da lui.
Arequipa, situata in un’oasi a 2360 metri sopra il livello del mare, è la seconda città del Perù (un milione di abitanti). Sorge ai piedi del grande vulcano Misti (5800 m. s.l.m.), la cui ultima eruzione risale al 1784. E’ detta la “città bianca” per il colore della roccia con la quale sono stati costruiti tutti gli edifici principali del suo centro storico che, nell’anno 2000, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Entriamo in un bar per fare colazione. Il gestore del bar ci offre la possibilità di fare una telefonata gratuita a casa. Per quasi tutti noi, che non possiamo usare il nostro telefonino (in Perù funzionano solo i triband e solo qualcuno di noi ce l’ha) è un sollievo. Così telefono a Siracusa e parlo con la mamma, dandole e ricevendo buone notizie.
Arequipa ci piace molto. Sostiamo con piacere nella piazza principale, “Plaza de Armas”, dove ammiriamo la Cattedrale, il Convento degli Agostiniani, la Chiesa dei Gesuiti e il vulcano Misti.

                                                                                                    Arequipa – Plaza de Armas
E’ stata molto interessante e anche piacevole la visita al Monastero di Santa Catalina, simile ad una piccola città, con 100 stanze disposte lungo sei strade, tre chiostri, una chiesa e una pinacoteca. Vi venivano rinchiuse delle bambine di 12 anni di famiglie ricche spagnole per diventare monache di clausura. Nel 1970 fu aperto al pubblico, quando si pensò che il turismo avrebbe portato fondi necessari per installare un impianto elettrico e l’acqua corrente.

E’ rilassante passeggiare nelle stradine ornate di gerani, aranci, oleandri, tra pareti dipinte con vivaci colori, tra cui spiccano l’azzurro e il rosso, come si vede nelle foto sottostanti. Si respira un’atmosfera di misticismo e di bellezza insieme.
Pranziamo in un ristorante della città e torniamo in albergo per una doccia ristoratrice e un breve riposino pomeridiano. Siamo tutti liberi di utilizzare il pomeriggio come vogliamo.
Noi siciliane concordiamo di uscire insieme alle ore 16,30 per andare nei negozi vicino alla cattedrale, dove la mattina avevamo gettato uno guardo su alcuni capi di maglieria di “baby alpàca”.
Durante il viaggio in Perù abbiamo appreso che gli alpàca, originari delle Ande insieme ai lama, si allevano da oltre 5000 anni. Il loro vello è apprezzato in tutto il mondo per la sua leggerezza e tocco setoso, nonché per le sue proprietà termiche. I tessuti realizzati con questa fibra naturale erano un tempo riservati per vestire gli imperatori inca.
Si tosano una volta l’anno, prima dell’inizio del caldo estivo, e per la prima volta a un anno di età. Questa prima tosa produce la fibra più pregiata chiamata “baby alpàca”.
All’orario convenuto usciamo dall’albergo riposate e di buon umore. Plaza de Armas non è lontana e la raggiungiamo I negozi che cerchiamo sono nel porticato del chiostro della cattedrale. Sia in piazza che nel chiostro incontriamo anche gli altri compagni di viaggio, con cui scambiamo saluti e sorrisi, poi entriamo nei negozi che ci interessano. Io sono fortunata a trovare subito un cardigan della mia misura. Mi piace tanto non solo per la morbidezza, ma anche per i colori e i disegni che riportano le famose linee di Nazca, viste ieri dal piccolo aereo. Compro pure una grande sciarpa dai colori simili. La lavorazione dei due capi è a mano e i colori utilizzati sono naturali al 100%, senza utilizzo di prodotti chimici al lavaggio. I prezzi sono notevolmente superiori a quelli di altri capi di alpàca, ma mi piacciono tanto che non bado alla spesa.

7° giorno – 22 ottobre giovedì

Stamattina lasciamo Arequipa per riprendere il nostro viaggio in autobus alla volta del Canyon del Colca. Uscendo dalla città vediamo le favelas della periferia, come uscendo da Lima.
Attraversiamo il deserto di Atacama, percorrendo una strada serpeggiante che sale sempre più. Il paesaggio è affascinante: un altopiano arido, dove cresce soltanto un’erba gialla e dura, cibo buono per le vigogne. Scattiamo le foto dai finestrini dell’autobus e quando incontriamo gruppi di vigogne è una festa e una gara per foto e riprese. La mia telecamera non funziona bene. Di tanto in tanto appare sulllo schermo-video un messaggio di errore che dice così: “Recupero file. Evitare le vibrazioni”.
Purtroppo non posso evitarle, perché la strada non è più asfaltata, ma alquanto accidentata e l’autobus ci fa sobbalzare. Inoltre continua a salire. Chiedo a Miguel l’altitudine: 4200 metri.
La zona che stiamo attraversando fa parte del Parco Nazionale Salinas y Aguada Blanca, istituito nel 1981 per proteggere le vigogne e altri animali in pericolo di estinzione e per salvaguardare la bellezza del paesaggio, di grande interesse turistico.
Le vigogne ancora oggi vivono allo stato selvaggio e in completa libertà. A differenza dei lama e alpàca, le vigogne non furono mai addomesticate e sono abituate a vivere in zone geografiche ostili, al di sopra di 4000 metri di altitudine. Non rischiano l’estinzione grazie alla decisione del governo peruviano di affidare alle comunità indigene dell’altopiano la cura di questi animali. Oggi ci sono 149.000 esemplari di vigogna in Perù, 15.000 in Bolivia e la specie non rischia più l’estinzione.
Il pelo, estremamente folto e sottile, è adatto a proteggerli dai freddi estremi degli altipiani.
La lana di vigogna è la più pregiata del mondo.

                                                                                                           Il vulcano Ampato (6288 m)
Le cime delle Ande sfilano sotto i nostri occhi ai bordi dell’altopiano. La cima che vediamo nella foto sopra è quella del vulcano Ampato, il cui nome è legato a un importante ritrovamento archeologico: la “vergine congelata”, Juanita.
Nel settembre 1995, durante un’ascesa del monte Ampato (6288 metri), Reinhard e Miguel Zárate trovarono all’interno di un cratere un involucro caduto dal sito inca sovrastante. A causa dello scioglimento dovuto alla cenere vulcanica del vicino vulcano Sabancaya in eruzione, molti siti funerari inca erano finiti nei crateri. Per loro meraviglia, l’involucro conteneva la mummia perfettamente conservata di una giovane donna. Inoltre trovarono disseminati lungo il fianco della montagna molti oggetti che erano stati lasciati come offerta agli dei Inca; tra questi oggetti si trovavano statue e cibo. Dopo un paio di giorni corpo ed oggetti furono portati ad Arequipa. Il corpo scioccò la comunità scientifica a causa delle ottime condizionera.
Juanita era una ragazza inca di tredici o quattordici anni, destinata sin dalla più tenera età alla Casa delle Vergini, dove sarebbe cresciuta apprendendo l’arte della tessitura e della preparazione degli abiti e della chicha (birra di mais) per l’Imperatore.
In occasione di grandi festeggiamenti, per ringraziare le divinità o in epoche di carestia, gli inca organizzavano cerimonie con sacrifici umani.
Juanita era stata preparata al suo destino ed era orgogliosa del suo sacrificio perché da lei sarebbe dipeso il futuro raccolto, la protezione dalle epidemie il benessere di tutto l’impero. Non aveva paura, anzi era impaziente di raggiungere la divinità. Salì il Monte Ampato e lì finì la sua vita terrena, con un colpo di pietra in fronte. Succedeva all’incirca tra il 1440 ed il 1450. I ghiacci la tennero nascosta per cinquecento anni.
Ora la sua mummia giace ad Arequipa, in una teca di vetro a -20 gradi, perfettamente conservata. Nel nostro programma di viaggio non era prevista una visita a Juanita ad Arequipa, ma io l’avevo già vista, prima di partire per il Perù, in un bel documentario di Alberto Angela.
Abbiamo visto alcune mummie simili nella necropoli di Chauchilla, ben conservate dalla sabbia del deserto, nei vestiti originali, di cui si vedevano ancora la tessitura e i colori. Ciò che più mi ha meravigliato delle mummie viste è stata la lunga capigliatura intrecciata, così come la portano ancora oggi le donne indios che incontriamo per strada.

La temperatura è estiva quando splende il sole; si abbassa notevolmente la sera.
Intorno alle 10,30 facciamo una sosta presso un posto di ristoro, dove non mancano mai le bancarelle che attirano i turisti.
Qui compriamo a poco prezzo maglioni di alpàca, berretti e guanti. Non solo le bancarelle dai vivaci colori attirano il nostro sguardo, ma anche il paesaggio intorno. Siamo in mezzo ad un altopiano desertico circondato da splendide montagne, alcune con le cime innevate.Riprende il nostro viaggio: continuiamo a salire. Miguel ci dice che per arrivare al canyon del Colca, che è la nostra meta, passeremo per un passo di 4910, quindi supereremo l’altitudine della cima del Monte Bianco.

Il soroche

Prima di iniziare il viaggio in Perù mi ero documentata sul mal di montagna, che qui viene chiamato “soroche” (pron. soroce). Avevo letto che salendo in alta quota si avvertono dei disturbi, come mal di testa, nausea, spossatezza, mancanza di respiro, ecc. Ma non tutti li avvertono con la stessa intensità. In Perù il soroche si combatte bevendo il maté (infuso di foglie di coca) o masticando le foglie di coca. Avevo letto che un alpinista italiano esperto diceva che l’unico rimedio per non avvertire le sofferenze del mal di montagna è un farmaco chiamato DIAMOX, che è un blando diuretico, da prendere sei ore prima di salire in alta quota. Nessuno può sapere, prima della salita, come reagirà il proprio organismo. Ci sono individui che si acclimatano subito, altri che soffrono, e devono ricorrere al riposo, altri ancora che non tollerano l’altitudine e devono immediatamente scendere di quota.
Io non volevo pensare di appartere a quest’ultima categoria di persone, perciò sono partita per il Perù senza preoccuparmi tanto e pensando che ce l’avrei fatta con i rimedi locali.
Negli alberghi peruviani le caraffe di maté e le caramelle di coca sono a disposizione di chiunque.
Molti di noi la mattina, a colazione, abbiamo bevuto tanto maté e inoltre ci siamo fatti riempire da un cameriere una bottiglia di infuso da portare in viaggio con noi per combattere il mal di montagna, se ne avessimo sofferto. Inoltre tutti avevamo in borsa caramelle e dolcetti di coca, comprati durante il viaggio per precauzione.
Prima di partire per il Perù avevo parlato alle mie compagne del DIAMOX, ma io non volevo comprare il farmaco, né parlarne con il mio medico, convinta com’ero che non avrei avuto problemi, godendo di buona salute.
Ora che stiamo attraversando l’altopiano andino e siamo già a quota 4000 m sono convinta che la passerò liscia e che non saprò che cosa sia il mal di montagna. Di tanto in tanto chiedo la quota a Miguel: ora siamo a 4300 metri ed è prevista una sosta in una stazione di servizio. Dentro l’autobus non avverto alcun malessere. Perciò scendiamo tranquillamente dall’autobus e ci avviamo alla stazione di servizio. Poiché la temperatura esterna è più bassa, torno indietro sull’autobus per prendere una giacca. Accelero il passo per raggiungere il gruppo, che era già andato avanti, e, per timore di restare indietro, salgo di corsa alcuni gradini. E’ la mia rovina. All’ultimo gradino mi fermo all’improvviso: il cuore batte forte come impazzito, apro la bocca per respirare a pieni polmoni, ma non sento l’aria entrare, ho la testa vuota, temo di cadere. Ho la forza di chiamare Maria Elena che per caso mi passa accanto, mi appoggio a lei, le dico che sto male. Avvisto una sedia a pochi passi da me. Mi pare di morire. Sento che devo raggiungere la sedia e fermarmi … Faccio l’ultimo sforzo e mi siedo. A poco a poco a poco il martellamento diminuisce, fino a sentire i battiti quasi normali. Accanto a me, in piedi c’è Tatiana che a sua volta soffre come me e dice di sentirsi il cuore in gola.
Così ho conosciuto il “soroche”, il maledetto soroche, che mi ha dato per qualche minuto la sensazione della morte. Ora conosco il mio nemico. Tutti si dirigono verso l’autobus per riprendere il viaggio e anch’io devo alzarmi dalla sedia: lo faccio lentamente, cammino lentamente verso l’autobus e mi siedo esausta. Valentina mi viene in aiuto offrendomi mezza compressa di DIAMOX; l’altra metà l’aveva già presa lei a colazione, per precauzione e stava bene. Maria Elena non ha preso nulla e non ha avvertito nulla. Anche Mariola l’ha preso per precauzione e non ha avuto problemi. Eliana sta male come me, nonostante abbia preso delle pillole peruviane a base di erbe.
Miguel viene in aiuto di chi sta male offrendoci delle foglie di coca da masticare. Ne arrotola cinque e ci invita a masticarle senza inghiottire. Provo anch’io: sono amare e tinge la lingua e i denti di verde.

Maria Elena mostra l’altitudine nella sosta alla stazione di servizio. Come si
legge sulla pietra, siamo ancora nel Parco Nazionale Salinas y Aguada Blanca

Continuiamo la salita. Io annoto sul mio quaderno:
ore 12,40 : quota 4700 m sul livello del mare;
ore 12,50 : quota 4910 m. Siamo al massimo, ma non avverto alcun malessere, in parte perché sto ferma, seduta dentro l’autobus, in parte forse per effetto del DIAMOX.
Ora comincia la discesa. Facciamo una sosta sulla strada dell’altipiano dove alcune donne con bambini e agnellini di alpàca aspettano i turisti davanti alle loro colorate bancarelle fatte con delle pietre poste una sull’altra.

Nell’altopiano non si vede anima viva e fa piacere fermarci davanti alle bancarelle, non solo per gli oggetti messi in vendita, ma anche per intrattenerci con le donne, i bambini e gli agnellini, che vivono in una terra difficile e in modo tanto diverso da noi.
Come si vede nella foto, indossano abiti dai colori molto vivaci con corpetti ricamati. In basso, oltre il ciglio della strada, si vede il villaggio di Chivay (m 3650), dove arriviamo per il pranzo e per riposare nell’albergo “Casa Andina”.
Il canyon del Colca è uno dei più grandi del mondo, profondo 3.180 metri. Nella valle abitarono 2000 anni fa i Cabana e i Collagua, i quali costruirono un sistema di terrazzamenti per raccogliere l’acqua disciolta dei ghiacciai vicini e limitare le erosioni, oltre che per scopi agricoli. Quando arrivarono gli spagnoli, costrinsero i contadini a lavorare nelle miniere e ad abitare in 14 villaggi da loro costruiti nella valle del Colca per tenere gli indigeni schiavizzati sotto controllo. Chivay è il più importante di questi villaggi. In tutti c’è una piazza e una grande chiesa coloniale.

Dopo un breve riposo in albergo, prendo un analgesico per combattere un fastidioso mal di testa, causatomi dal soroche. Nel pomeriggio andiamo a visitare le piscine delle terme di Calera alimentate dalle acque naturali sulfuree. Alcuni rimangono a fare il bagno. Io con altre compagne preferiamo fare un giro nella piazza del villaggio, dove incontriamo un simpatico ragazzino del luogo che porta a spasso il suo alpàca e si lascia volentieri fotografare.

8° giorno – 23 ottobre venerdì
Stamattina ci siamo svegliati molto presto per raggiungere il belvedere del canyon del Colca, da cui è possibile osservare il volo dei condor, gli uccelli più grandi del mondo. Il belvedere si chiama Cruz del Condor, perché vi è piantata una croce.
Attraversiamo prima il villaggio di Yenque (2 mila abitanti), dove facciamo una breve sosta per vedere la chiesa, distrutta dal terremoto e rifatta dalla regina Sofia di Spagna, e la piazza su cui ragazzi e ragazze in costumi multicolori girano attorno alla fontana al suono di una musica, per una festa locale che noi non conosciamo. La musica peruviana e i pittoreschi costumi ci allietano.

Passando da un villaggio all’altro possiamo ammirare le numerose terrazze costruite sulle pendici dei monti dagli antichi abitanti, ancor oggi utilizzate per l’agricoltura. In quelle abbandonate oggi i peruviani lasciano vivere i fichidindia infestati appositamente dalle cocciniglie, parassiti delle piante, che vengono utilizzate in Perù per la colorazione della lana. e dei tessuti. L’umore ricavato dalla cocciniglia è rosso: unito ad altre sostanze naturali, dà origine ad altri colori.

Il viaggio attraverso la strada serpeggiante tra le Ande è indimenticabile. Le maestose montagne che sfilano sotto il nostro sguardo affascinato, le voragini che precipitano nelle valli sottostanti, verdi per le coltivazioni, l’acqua scorrente del Colca nella profondità del canyon, i terrazzamenti coltivati che scendono fino alla valle, l’aspetto desertico della strada che percorriamo e dei luoghi che sovrastano il canyon creano uno scenario grandioso, che difficilmente si potrà vedere in un’altra parte della terra.
Il nostro autobus si ferma presso il “Mirador de la cruz del condor” e Miguel ci invita a scendere. Non è certo che vedremo volare i condor, che vivono aggrappati alle pareti del canyon.
Il condor è il più grande uccello del mondo, alto oltre 1,20 m, con una apertura alare di m 3,20. Nonostante il peso (oltre 12 kg) può planare per ore senza ricorrere alle ali, sfruttando le correnti calde ascensionali senza battere le sue enormi ali. Si nutre di carogne o di cuccioli che individua dall’alto grazie alla vista e all’olfatto sviluppatissimi. Gli inca lo consideravano sacro insieme al puma e al serpente: il condor era il signore del cielo; il puma della terra; il serpente delle viscere della terra.
Vediamo volare molti condor, alcuni da lontano, altri sopra le nostre teste. Non ci siamo solo noi, ma tanti altri turisti sparsi in vari posti con gli obiettivi puntati per catturare le rare immagini da portare a casa. La nostra sosta dura un’ora. Soddisfatti, ci avviamo verso il pullman fermo sul ciglio della strada, più in alto rispetto alla nostra posizione. Raggiungere la strada è una gran fatica per l’altitudine. Il soroche si fa sentire durante la salita e ci costringe a fermarci dopo pochi passi, per poi riprendere il cammino. Nonostante il Diamox preso stamattina, io devo fermarmi a riposare più spesso degli altri. Anche Tatiana ed Eliana sentono l’affanno della salita, come me.

                                                                                                                Condor in volo

Ripreso il viaggio, ci fermiamo presso un altro belvedere nella valle del Colca per scattare altre foto. Le donne indigene scelgono i posti di sosta dei turisti per mettere in mostra i loro manufatti, come si vede nella foto sottostante.

Io ne approfitto per acquistare due tappetini tessuti e ricamati a mano. Mi piace sempre acquistare qualche cosa dalle donne andine anche per ricevere in dono un loro sorriso.
Passiamo presso il villaggio di Mata, dove sostiamo per una breve visita alla chiesa coloniale.

Anche in questa chiesa, dedicata a Santa Ana di Mata, c’è un balcone, sovrastante l’ingresso, che ci ricorda che gli indios erano considerati animali e non potevano entrare in chiesa; perciò ascoltavano fuori la parola del prete spagnolo.

Lasciata la valle del Colca, saliamo sempre più in alto, fino a raggiungere il Paso di Patapampa a quota 4910 m (in lingua quecha Pata significa alta; pampa significa pianura). Ci fermiamo al Paso e scendiamo per guardare il paesaggio e scattare qualche foto. Ma io sento battere forte il cuore e risalgo sull’autobus per stare a riposo. Intorno alle ore 13,00 ci fermiamo presso una stazione di servizio per un pranzo a sacco: panini e frutta.
Riprendiamo il viaggio. Pioviggina. La strada, finora sterrata, è diventata asfaltata. Dai finestrini vediamo i fenicotteri rosa in uno stagno. Poi una brevissima sosta per fotografare un lago andino, dove si allevano le trote. Mi avvicino al lago per una migliore inquadratura; ma la foto mi costa cara: i pochi metri che mi separano dall’autobus li percorro a stento perché il cuore mi batte forte e mi manca il respiro. Per fortuna la sofferenza scompare non appena mi seggo sul pullman. Il viaggio pare interminabile e il paesaggio fuori del comune. Non c’è anima viva intorno, solo noi. Il cielo si oscura, qualche lampo guizza nel cielo e subito la pioggia viene giù.
Intorno alle ore 16,00 passiamo da Juliaca (200 mila abitanti) a 3800 m di altitudine. Cade la grandine che vediamo accumularsi lungo i muri delle case. La temperatura si è abbassata e mi fa piacere coprirmi la testa con un berretto peruviamo e una sciarpa intorno al collo. La pioggia ci fa rinunziare alla visita al cimitero preistorico di Sillustani, che vediamo dai finestrini a poca distanza da noi. A questo punto sale sul nostro autobus Zacarias, che si presenta come nostra guida per i giorni che staremo a Puno e sul lago Titicaca. Miguel non è più con noi, ma ci ha lasciato il suo indirizzo di posta elettronica (palestino6@hotmail.com) per potergli inviare dall’Italia le foto scattate insieme al lui durante il viaggio.

Zacarias, di etnia àymara
Zacarias, a differenza delle guide precedenti, che hanno studiato in città, ha un aspetto molto rustico, la pelle nera, bruciata dal sole, i capelli un po’ lunghi, nerissimi e folti, nonostante i suoi cinquant’anni. Dice di essere di etnia àymara. Non ha studiato, ha imparato la nostra lingua frequentando i turisti, dopo avere abbandonato la montagna ed essersi trasferito nella città di Puno. Parla male l’italiano, ma si fa capire.
Nella città di Puno, sulle rive del lago Titicaca vivono i Quecha, gli Aymara, gli Uros.
L’attuale popolazione del Perù è costituita per circa il 45% dalla etnia quecha e da una minoranza di àymara, sopravvissute all’opera sistematica di distruzione operata dagli spagnoli in ben 300 anni di colonizzazione. I quecha e gli àymara sono i diretti discendenti della civiltà inca. In loro sono vive le antiche tradizioni, custodite e tramandate oralmente nei secoli e che tuttora fanno parte della quotidianità.

Accettano la dura fatica di sempre, confortati dalla certezza che non saranno mai traditi dalla Pachamama (la Madre Terra) e dal dio Inti (il sole). La religione cristiana imposta dagli spagnoli è stata accettata formalmente: la loro fede e la loro anima rimangono pagane. Non c’è fusione tra i due credi, ma parallelismo: da un lato ci sono Gesù e la Madonna, dall’altro il dio della Montagna (Wamani) e la Madre Terra (Pachamama).
I ringraziamenti alla Pachamama, antica tradizione incaica, si ripetono continuamente nella vita di ogni giorno, ogniqualvolta bevono la chicha o quando fanno offerte propiziatorie per chiedere la sua benevolenza.
Durante il nostro viaggio abbiamo assaggiato la chicha (pron. cicia). E’ una bevanda leggermente alcolica, consumata già all’epoca degli inca, che si ottiene dalla fermentazione del mais o della quinoa con acqua e miele e viene preparata artigianalmente.
La quinoa è una pianta erbacea che, per il suo buon apporto proteico, costituisce l’alimento base per le popolazioni andine.
Durante il viaggio ho spesso mangiato a ristorante la zuppa di quinoa, che mi pare gradevole.

Zacarias , nel suo italiano raffazzonato, attira la nostra attenzione per le innumerevoli cose che ci racconta nel tragitto da Sillustani alla città di Puno, dove arriviamo alle 19,30. Anche qui il nostro albergo si chiama “Casa Andina” ed è nel centro. La camera, che condivido con Mariola, è al terzo piano e non ci sono ascensori. Non penso che Puno è a 3827 m di altitudine e non penso al soroche; ma quando mi avvio a salire la scala il nemico nascosto bussa forte nel mio petto e mi toglie il respiro. Con fatica e fermandomi ogni quattro gradini arrivo con Mariola al terzo piano.
La cena la faremo in un ristorante vicino. All’ora convenuta tutti quanti ci riuniamo nella hall e, aperti i parapioggia perché piove ancora, ci avviamo al vicino ristorante. Qui a Puno la temperatura ci pare più bassa. Io con fatica riesco a tenere il passo insieme agli altri e la stessa cosa avviene dopo cena per tornare in albergo. Perciò stanotte, prima di andare a letto, prendo un’altra mezza compressa di DIAMOX, sperando che il soroche non mi rovini il soggiorno in Perù.

9° giorno – 24 ottobre sabato

                                                                                                            Il lago Titicaca

Stamattina alle sette usciamo dall’albergo per andare all’imbarcadero del porticciolo di Puno per iniziare la traversata lel lago navigabile più alto del mondo, il lago Titicaca (3.812 m sopra il livello del mare), situato tra Perù e Bolivia, con una superficie di 8.562 km² (quanto l’Umbria intera). Il lago, circondato da una corona di alte montagne, per le sue enormi dimensioni sembra essere un mare. Le sue rive ospitano ancora oggi i discendenti degli antichi abitanti àymara e quechua che popolavano questi luoghi prima ancora della dominazione dell’Impero Inca.

Il lago era un luogo sacro per la cultura inca. La mitologia quecha racconta che il primo inca, Manco Capac, illuminato e guidato da Inti (il dio Sole) partì da questo lago insieme a mama Ocllo (sua moglie nonché sorella) e segnò il punto in cui sarebbe sorta la capitale del futuro Impero, Cuzco, che in lingua quecha significa l’ombelico del mondo. Tutti i sovrani inca, dunque, erano ritenuti discendenti diretti del Sole e, quindi, dèi essi stessi e padroni di tutte le cose e gli uomini del regno.

L’aria è tersa, la giornata luminosa e i colori vividi: dall’azzurro dell’acqua e del cielo al bianco candido delle nuvole.
Passiamo vicine alle canne di totòra, che crescono spontanee in gran quantità, utilizzate dall’antico popolo Uros per costruire le isole artificiali galleggianti su cui ancora oggi vivono.
Gli Uros si considerano il popolo più antico della terra. Nei secoli passati, per sfuggire alle altre etnie ostili della terraferma, si rifugiarono tra le canne e idearono delle piattaforme con vari strati di totora intrecciata, ancorate al fondo del lago. Le canne vanno sostituite man mano che marciscono. Con la totòra costruiscono anche le canoe e le minuscole capanne in cui dormono. Inoltre mangiano l’interno tenero della pianta e la usano anche come combustibile. Ci sono circa 40 isole galleggianti.

Gli abitanti delle isole conoscono la nostra guida Zacarias e lo chiamano a gran voce perché ci faccia scendere nella loro isola. Il nostro motoscafo si ferma davanti a un gruppo di Uros che ci accoglie con grande allegria. Le donne indossano ampie gonne coloratissime, camicie bianche ricamate e una corta giacca rossa o fucsia con ornamenti. Portano cappelli a bombetta di feltro o di lana colorata a falde larghe ondulate.
Cantano una loro canzone in lingua àymara e poi una in italiano.
La cucina, che si vede nella foto, consiste in un recipiente di terracotta aperto in basso per metterci il combustibile (canne di totòra) e con due aperture in alto, per potervi appoggiare due pentole. Nella foto in alto una grossa pentola di terracotta e la padella.
Zacarias, davanti a un cartellone predisposto per noi, ci fa vedere la mappa del lago Titicaca, le città sulla costa e le isole. Un uomo sbuccia qualche totòra tenera e ce la offre da mangiare. Poi le donne del luogo ci invitano a visitare la propria capanna e a comprare i loro manufatti. La capanna è incredibilmente piccola, con una stuoia a terra come letto. Pochi indumenti o utensili sono appesi alle pareti di totòra.
Io compro un bel modellino delle loro canoe e un tappetino tessuto e ricamato a mano.
Nell’isola più grande c’è una scuola per permettere a tutti i bambini Uros di istruirsi, i quali, se vogliono continuare gli studi, devono poi trasferirsi nella città di Puno. Nella comunità Uros c’è anche una chiesa.
Zacarias dice che gli abitanti delle isole galleggianti hanno un’aspettativa di vita molto bassa, perché vivono troppo vicino all’acqua e si ammalano presto di reumatismo. A 40 anni sono vecchi. Alcune famiglie però oggi vivono nelle isole solo di giorno, per vendere i loro prodotti ai turisti; la notte ritornano in città.
Gli Uros vivono di pesca e principalmente di turismo. Uno della famiglia dell’isola che ci ha ospitato ci offre, per pochi soles, una passeggiata in canoa nel lago Titicaca. Qualcuno esita timoroso, ma poi tutti saliamo in questa strana barca di canne di totòra strettamente legate. Oltre al barcaiolo c’è con noi una bella bambina dalle lunghe trecce nere, forse la figlia.

E’ ora di lasciare l’isoletta dei nostri ospiti per risalire sul motoscafo e proseguire la navigazione verso una delle isole naturali che si trovano nel Titicaca: l’isola di Taquile, che dista 36 km dalla cittá di Puno. Taquile in lingua locale significa “Canto al Sole”.
Dopo circa tre ore di navigazione raggiungiamo il molo principale dell’isola. Il punto piú alto di Taquile arriva a 4.000 metri.
Insieme a Zacarias seguiamo un sentiero che sale gradualmente fino al paese piú grande. Questa camminata offre una vista di paesaggi meravigliosi del lago Titicaca.
Il sentiero sale senza pietà per il nostro cuore, che è costretto a battere più forte.
                                                                          Il faticoso sentiero in salita per raggiungere la cima di Taquile
Ma non abbiamo fretta. Ogni tanto siamo costretti a sederci su un masso per riprendere fiato. Intanto ci volgiamo al lago sottostante che ci offre una immagine spettacolare di sé. E’ così azzurro che il colore non sembra naturale. Riprendendo il cammino e ascoltando Zacarias, che racconta in modo affascinante le tradizioni della gente del luogo, saliamo una scala naturale, fatta di massi, così faticosa che pare impensabile che potremmo arrivare in cima alla montagna.
Ma Zacarias non ha fretta. Ci aspetta quando ci fermiamo e ci offre un’erba appena raccolta, il cui odore, a suo dire, allevia la sofferenza del mal di montagna. Anch’io provo a respirarne l’umore delle foglie strizzate tra le dita, ma il soroche è inesorabile. Intanto ci guardiamo intorno: ci sono delle capanne sparse di contadini e allevatori; dei bambini scendono la scalinata naturale portando al laccio qualche cucciolo di alpàca. Si vede anche qualche asinello. Si respira un’atmosfera bucolica, fuori della nostra civiltà frenetica. Pare di essere indietro nel tempo di migliaia di anni.
Arriviamo col fiatone ad una piazza del villaggio, circondata da un parapetto di pietra che si affaccia sul pendio.La vista del lago dall’alto è stupenda e rasserenante. Mi meraviglia vedere un vecchio rugoso che lavora a maglia. Credevo che fosse un lavoro da donna, ma a quanto pare a Taquile anche gli uomini lo fanno o forse solo i vecchi, che non possono più dedicarsi ai lavori faticosi.
Sull’isola la gente è esperta nell’arte della tessitura: entriamo in un grande locale dove sono in mostra, per la vendita, molti tessuti fatti a mano: sono per lo più teli o larghe cinture che noi non sappiamo come utilizzare. Nessuno di noi ne compra.
Riprendiamo il sentiero per salire in cima alla montagna. Finalmente arriviamo nella parte più alta e ci fermiamo in un ristorante, dove siamo attesi. Sono le ore 12,30 e abbiamo salito 540 gradini. Incredibile! Nessuno li ha contati, ma il numero sta scritto su un libro di guida. Il ristorante ha una terrazza che si affaccia su un dirupo. Da quassù la vista è unica. Il lago color zaffìro lo vediamo immenso e lontano, molto in basso rispetto a noi. Faccio un po’ di conti: la superficie del lago è a 3.800 m sul livello del mare. Noi siamo affacciati ad una altitudine di 4000 m, perciò il lago è 200 metri sotto di noi.
                                                                                              L’intenso azzurro del Lago Titicaca

La tavola è apparecchiata su una terrazza che un muretto separa da un precipizio, che scende sul lago. Non so cosa mangeremo, ma stare seduti a tavola a guardare l’immenso azzurro dell’acqua sotto di noi e del cielo sopra di noi è così fantastico che il cibo passa in secondo piano. Mangiamo zuppa di quinoa, trota con riso e patate e beviamo un infuso di erba locale.

Finito il pranzo, percorriamo per il ritorno un altro sentiero, in ripida discesa verso l’attracco del nostro motoscafo. Sono le ore 14,45 e partiamo per tornare a Puno. Dopo due ore di traversata il sole scompare, le belle nuvole candide diventano cupe e l’acqua si increspa perdendo il suo meraviglioso colore zaffìro. Quando arriviamo a Puno (ore 18,00) scendiamo dal motoscafo sotto la pioggia e ci bagniamo prima di arrivare all’autobus che ci porta in albergo. Zacarias dice che ogni giorno a Puno il sole splende di mattina; nel pomeriggio cade la pioggia.
Io e Maria Elena decidiamo di rinunziare alla cena, prenotata in un ristorante del centro. Si sta bene nell’albergo. Nella hall c’è Angelica, una simpatica signora di Puno, di mezza età, che espone in un grande banco tanti maglioni di lana di alpàca, che attirano la nostra attenzione. Sono belli, leggeri e caldi; inoltre i prezzi sono ridicoli: calcoliano rapidamente che ogni maglione costa circa sette euro. Io e Maria Elena troviamo divertente cercare tutti quelli della nostra taglia e metterli da parte su un divano. Se ce ne piace qualcuno che, però non è della nostra taglia, chiediamo ad Angelica se ce lo può portare l’indomani; e lei risponde che ce lo porterà. Ne compriamo una decina di colori e disegni diversi. Inoltre io acquisto un grande tappeto da tavola, uguale o quasi a quello che copriva il nostro tavolo da pranzo nella sommità dell’isola di Taquile, sul lago Titicaca (si vede nelle due foto precedenti).
Al primo piano dell’albergo ci sono due computer liberi e posso concludere la meravigliosa giornata di oggi connettendomi con Internet e scrivendo le mie impressioni del viaggio a mio figlio Ignazio, che sta a Catania, alla mia mamma quasi novantenne, che si trova a Siracusa con mio fratello e mia cognata, che rispondono alle mie e-mail in qualunque posto del Perù mi trovi e condividono, dall’altro continente, le mie emozioni.10° giorno – 25 ottobre 2009 domenica

Stamattina, costeggiando il Lago Titicaca, varcheremo il confine con la Bolivia per visitare il sito archeologico di Tiahanako, in territorio boliviano.
La mattinata è splendida e nel pomeriggio si prevede la pioggia, come succede ogni giorno (lo dice Zacarias).
Tra le nostre guide, tutte preparate e attente, Zacarias ci sembra la più interessante. La sua preparazione non è avvenuta in alcuna scuola, ma dalla vita, una vita vissuta su una montagna delle Ande, tanto diversa dalla nostra e per questo incredibile e affascinante.Comincia parlare del suo villaggio sulle montagne vicino a Puno, dove la vita scorre senza stress: non si pagano bollette, non esistono registri, non giudici, avvocati, tribunali, ospedali, farmacie. Se due persone litigano, vanno dal capovillaggio e si sottopongono al suo giudizio. Non c’è delinquenza, non circola la droga. La gente vive tranquilla e si accontenta di quello che offre la terra col duro lavoro.
Gli andini sono agricoltori e allevatori. Oltre agli animali tipici del luogo, alpàca e lama, allevano anche le mucche, quest’ultime solo per la carne, che non mangiano, ma che vendono al mercato. Le mucche allevate ad una altitudine di 4000 m producono soltanto due litri di latte al giorno.
Continua a parlare senza pause, in un miscuglio di italiano e spagnolo, passando alla sua vita privata. Alla sua nascita, il 6 settembre, il padre analfabeta chiese ad un amico di leggere nel calendario il nome del santo del giorno. L’amico lesse: ” S. Zacarias” e quello diventò il suo nome.
Da bambino chiese alla madre: ” Come sono nato?”
La madre gli rispose: “Chiedilo a tuo padre”.
Zacarias andò dal padre per avere spiegazioni e il padre gli raccontò che prima che lui nascesse era andato in giro per la campagna a raccogliere un’erba dalle grandi foglie e la portò alla moglie. L’erba, di cui non ricordo il nome, fu messa in infusione in una pentola di acqua bollente. Le foglie calde furono applicate sul pancione della mamma che fu avvolto da una coperta di alpaca. La mamma, rimanendo in piedi, bevve l’infuso caldo che l’aiutò a stimolare l’espulsione, e così Zacarias venne giù. Le donne andine partoriscono in piedi nella loro casa, tagliano il cordone ombelicale con un coccio di terracotta e conservano la placenta del figlio in un vaso, su sui viene segnato il suo nome. La mamma di Zacarias, che ha 84 anni, ha messo al mondo 14 figli e le 14 placente sono ancora conservate ognuna nel suo vaso. Quando una madre muore, tutte le placente vengono seppellite con lei.All’età di 15 anni il padre gli presentò Maria, della stessa età, e gli disse: “Prenditela e vivi con lei in un’altra casa. I suoi genitori acconsentono”.
Zacarias obbedì al padre perché così vuole la tradizione e nessuno nella comunità andina osa trasgredire le tradizioni. Il matrimonio avviene dopo un certo periodo di prova. La convivenza può essere interrotta per vari motivi e i due interessati possono iniziare un’altra convivenza di prova, a patto che non nascano figli. La popolazione andina non considera necessario legalizzare l’unione: basta il riconoscimento dei compaesani.
Zacarias racconta ancora che gli piaceva qualche volta andare con Maria in città, a Puno, ma la donna in città si sentiva come un pesce fuor d’acqua e desiderava ritornare nella sua montagna, alle sue abitudini contadine. La città risvegliò invece in Zacaria curiosità, desiderio di conoscere il mondo moderno, il diverso modo di pensare dei giovani che studiano e prospettano un avvenire migliore.
Zacarias lasciò libera Maria di rimanere nel suo mondo antico e si trasferì definitivamente a Puno, dove fa il mestiere di guida turistica. I suoi tre figli studiano ad Arequipa e di tanto in tanto vanno a trovare la mamma in montagna che vive la vita che non è mai cambiata nei secoli.
Io gli chiedo se è divorziato e se vuole risposarsi. Zacarias mi risponde che non può divorziare, perché non si è mai sposato legalmente. Potrebbe prendersi un’altra moglie, ma non vuole per rispetto delle tradizioni della sua gente, che lo considera sposato con Maria.
Aggiunge che non ha mai amato Maria, che l’ha presa con sé perché così ha voluto suo padre, perché così si è fatto sempre e si continua a fare in montagna.
Zacarias apprezza la scuola e l’istruzione che lui non ha avuto e sta dalla parte dei giovani di città che si innamorano e si scelgono, senza imposizioni esterne.
Zacarias interrompe i suoi racconti non appena arriviamo al villaggio di Ácora (5 mila abitanti). Ci invita ad una breve sosta per visitare il mercato domenicale, che si effettua ancora con il baratto.
Entriamo in una piazza di terra battuta, piena di pozzanghere per la pioggia della sera prima. Per noi è uno straordinario bagno di folla. Le donne sono accoccolate a terra con le loro larghe gonne dai vivaci colori, davanti a un telo steso a terra con la merce. La gente non gradisce essere fotografata ed io cerco di non farmi vedere mentre faccio le riprese o scatto le foto. Una vecchia indispettita lancia contro di me una manciata di fave secche, un’altra copre con un telo i suoi pesci, per proteggerli dal mio obiettivo, un’altra ancora mi minaccia col bastone.Cerchiamo di stare uniti nella folla e soprattutto di seguire Zacarias che ci mostra i prodotti tipici, che potrebbero più incuriosirci: le patate che curano le malattie della prostata, la lana tosata di alpàca ancora sporca, pezzi di argilla con cui si prepara una bevanda che cura l’ulcera (l’acqua dove è stata sciolta l’argilla si beve dopo sette giorni).
Zacarias acquista per noi due pani speciali che si preparano in occasione della vicina festa dei Morti.

Ripreso il nostro viaggio, assaggiamo sull’autobus il pane acquistato al mercato, che è morbido e ci piace. Passiamo, senza fermarci, per un altro villaggio e sostiamo brevemente presso i resti archeologici di un muro con una porta di pietra presso cui gli inca venivano a meditare.
La strada costeggia il lago Titicaca che ora si vede in tutta la sua lunghezza. Nella parte opposta, di fronte a noi, vediamo le montagne della Bolivia, dove c’è la città di Copacabana, che è il più grande insediamento sul versante boliviano del lago.
Facciamo un’altra sosta nella cittadina di Pomata, dove di celebra l’alzabandiera (si fa ogni domenica) con l’inno nazionale e una sfilata di uomini e donne vestite di nero.
Alle 11,45, espletate le operazioni di frontiera, ci uniamo in gruppo per una foto ricordo prima di passare sotto lo striscione di “BIENVENIDOS A BOLIVIA”.
Zacarias, che rimane in Perù, ci affida ad una ragazza boliviana di la Paz, che ha il bel nome di Felicidad.

                                          Il nostro gruppo prima di passare in Bolivia.Nella mia foto sono assenti Eliana e Tiziana
Percorriamo la strada che costeggia la riviera boliviana del lago Titicaca, vedendo questa volta, nella riviera opposta, le montagne peruviane.
Alle ore 13,00 arriviamo nella zona archeologica di Tiahanaco, dove fiorì una importante civiltà preincaica, che si estendeva attorno alle frontiere di Bolivia, Perù e Cile.
Ci fa da guida un simpatico ragazzo boliviano, Carlos Quiroga, nativo dell’Amazzonia, che, salito sul nostro autobus, ci parla della grande sofferenza causatagli dal soroche, quando in aereo si trasferì a La Paz, che è la capitale più alta del mondo (3600 m di altitudine). Non riuscì a mangiare e a dormire per una settimana.Carlos dapprima ci fa visitare il museo, le cui vetrine espongono interessanti reperti di tombe.Mi colpiscono particolarmente i crani allungati, appositamente deformati fin dalla nascita, in segno probabilmente di prestigio sociale. I crani teneri dei bambini venivano compressi da tavolette fino all’allungamento voluto. In una vetrina viene mostrato il cranio di un neonato, spaccato per una eccessiva compressione.
La visita ai resti archeologici di Tiahanaco la facciamo dopo pranzo.
La città di Tiahanaco crebbe tra il IV e il VI secolo, acquistando un potere nel sud delle Ande. Il declino iniziò intorno al 950 e completato intorno al 1100, quando il centro cerimoniale fu abbandonato. Tutto il territorio fu conquistato dagli Inca nel XV secolo.
Non si conoscono le cause del declino, perché il popolo non conosceva la scrittura. Gli storici ipotizzano una siccità improvvisa che distrusse i raccolti.
Particolare interesse destano una piramide a sette gradoni, un tempio seminterrato, delle mura con sculture incise, archi e monoliti di roccia lavorata.
Le mura di cinta di Tiahanaco sono formate da grandi blocchi squadrati di andesite, una roccia vulcanica di colore scuro. Alcune delle pietre sono squadrate ad angolo retto con una perfezione incredibile e così vicine che tra esse non passa neanche una foglio di carta.

Alle ore16,10 si riparte per raggiungere la frontiera con il Perù e rientrare nel nostro albergo di Puno (Casa Andina), dove arriviamo alle ore 20,00.
Dopo la cena nello stesso ristorante del centro, arriviamo nella Piazza de Armas (si chiama così la piazza principale di ogni città finora visitata in Perù), non molto grande e torniamo indietro per ritirarci in albergo. In una piazzetta secondaria un gruppo di giovani hanno acceso un falò, attorno a cui cantano e ballano manifestando per un Congresso per professori di educazione fisica. Anche Mariola si unisce a loro girando intorno al falò.
11° giorno – 26 ottobre 2009 lunedì
Stamattina ci alziamo più presto del solito per preparare i bagagli e raggiungere la stazione degli autobus turistici che vanno a Cuzco, che dista da Puno 385 km. Il viaggio durerà sei ore, con parecchie soste lungo il percorso per visitare le rovine incaiche di Pukara, Raqchi e la chiesa di Andahualillas, chiamata la “Cappella Sistina delle Ande” per i suoi pregevoli affreschi..
L’autobus, della società Inka Express, è molto grande, a due piani, e accoglie i turisti di varia provenienza che deve raggiungere Cuzco. Noi scegliamo di occupare i posti nel piano superiore per godere una vista più alta del paesaggio.
Io mi siedo accanto a una ragazza peruviana, Jessica, nativa di Cuzco, che lavora sull’autobus come hostess. Le rivolgo delle domande in italiano e lei mi risponde gentilmente in spagnolo. Sull’autobus c’è una guida per tutti, parlante spagnolo e inglese. La vista delle Ande è incantevole. Le montagne che incontriamo sono tutte diverse per colore e forma.
Alle ore 9,35 facciamo la prima sosta a Pukara, dove c’è un sito archeologico inca.

Seguiamo la guida che parla in due lingue, ma non in italiano, perciò non capiamo granché di quanto ci mostra. In una stanza del museo troneggia una statua di pietra chiamata “Gran Degollator” (tagliatore di teste), personaggio mitico e molto legato alla storia dell’antico Perú. Non ho capito bene la storia della figura rappresentata.

In una bancarella acquisto qualche souvenir, tra cui una statuetta del “Gran Degollator”.
Ripreso il viaggio Jessica ci offre delle bibite. Faccio vedere a Jessica la statuetta acquistata e le chiedo di scrivere sul mio quaderno di appunti il nome del personaggio che rappresenta. In lingua quecha si chiama “Hatun Nagac”.
Alle 11,30 c’è un’altra sosta per ammirare le montagne, gli alpàca, e gli indios, che ci offrono in vendita i loro manufatti. Pioviggina. Maria Elena acquista per 30 euro un tappetino di pelle di alpàca.La sosta più lunga la facciamo per il pranzo in un ristorante di Raqchi (altitudine di 3500 m), dove mi faccio scattare una foto tra i due suonatori di musica peruviana, mentre fingo di suonare un grande flauto di pan (foto sotto).

In un cortile adiacente al ristorante si allineano le bancarelle degli indios, presso cui acquisto due berretti colorati di lana da regalare a Ignazio e Loredana.

Sotto la pioggia, seguendo la guida della società Inka express, andiamo a visitare il vicino complesso archeologico, dove ammiriamo il“Tempio di Wiraqocha”, che secondo gli storici fu costruito dall’inca Wiraqocha come omaggio al Dio Superiore della popolazione andina. Wiraqocha è la divinità creatrice del sole, della luna, delle stelle e degli uomini.

Il sito è molto interessante perché consta anche, oltre al tempio centrale parzialmente conservato, di una serie di cosiddette “Qolqas”, ovvero degli edifici circolari di cui ancora non si conosce bene la destinazione passata.
Si tratta di circa 160 resti, di cui sette ricostruiti per far vedere come fossero nell’antichità, che potevano essere magazzini, o ancora alloggi per permettere ai pellegrini di fermarsi in questo luogo che veniva considerato sacro o comunque molto importante.
Una caratteristica del sito, infatti, è quella di essere circondata da una grande muraglia di quasi 7 km che aveva indubitabilmente una funzione di protezione.

L’ultima sosta, alle ore 15,40, avviene nel villaggio di Andahuaylillas, dove ammiriamo la Chiesa dell’Immacolata, soprannominata la “Cappella Sistina delle Ande” (foto sotto).

Riprendiamo l’autobus per l’ultima meta, Cuzco, dove arriviano alle ore 17,00. Sistemazione nell’ Imperial Cuzco Hotel. La sera andiamo al ristorante “Valentina” per la cena.
12° giorno – 27 ottobre martedì

Stamattina partiremo per Machu Picchu alle ore.9,00.
Io e Mariola, che siamo solite alzarci presto, dopo colazione usciamo dall’albergo per arrivare alla piazza del centro storico di Cusco, che si chiama col nome ormai noto di “Plaza de Armas”. Dovendo fare i conti col soroche, trovandoci ad una altitudine di 3400, anche stamattina ho preso mezza compressa di Diamox. La strada che porta alla piazza è un po’ in salita, perciò ogni tanto dobbiamo rallentare l’andatura o fermarci un po’ per calmare il batticuore. Oltrepassato un grande edificio (palazzo di Giustizia) dopo un po’ ci troviamo a Plaza de Armas, con la Cattedrale e altre chiese nelle vicinanze, tra cui importante la Chiesa della Compagnia di Gesù. In alto fanno corona alla piazza le colline piene di case. Il primo incontro col centro di Cusco è un colpo d’occhio.Scatto con la mia telecamera qualche foto e faccio qualche ripresa e con mio disappunto mi rendo conto che la telecamera ha smesso di funzionare. Ripeto più volte il tentativo di riprendere le immagini o scattare delle foto, ma è inutile. La macchina mi sta tradendo nel momento più interessante del viaggio: non potrò portare a casa le immagini di Cusco e Macchu Picchu, che sono riconosciuti come i siti più interessanti del Sudamerica, dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Non possiamo restare ancora: dobbiamo ritornare in albergo prima delle ore 9 per andare nel luogo che consideriamo uno dei più belli del nostro viaggio, Macchu Picchu.
La visita a Cusco con la guida è riservata a dopodomani.
Lasciamo i bagagli in deposito nell’Hotel Imperial e partiamo con un piccolo bagaglio con il necessario per trascorrere la prossima notte a Macchu Picchu.

Ana Maria Felix, la nostra guida cuschegna, è una bella donna, giovane, alta e di carnagione e capelli chiari. Io le dico che, se venisse in Italia, sembrerebbe italiana. Ana Maria mi dice che ha una bimba di sette anni dai caratteri somatici quecha: statura piccola, carnagione scura e capelli neri, come il padre.
Dopo un’ora dalla partenza ci fermiamo presso il villaggio di Chinchero, che attraversiamo a piedi in stradine piene di fascino, costruite dagli inca, con un canale di scolo per le acque al centro, a volte ripide, dove si incontra la gente del luogo nei tipici vestiti multicolori, che fanno respirare l’atmosfera del tempo antico.
Ana Maria ci conduce in una casa dove la famiglia lavora la lana. Ci fanno accomodare in un cortile, dove una donna è intenta a tessere con un telaio a mano, altre filano o stanno dientro un banco di vendita pieno di manufatti di lana: berretti, guanti, sciarpe, maglioni, ecc.Una ragazza ci mostra come avviene la colorazione della lana partendo dalla cocciniglia, che dà il colore rosso, e come si formano gli altri colori.

Lasciamo la famiglia al lavoro, dopo aver comprato qualcosa, e proseguiamo il giro del villaggio fino alla piazza del mercato e alla bella chiesa, affrescata all’interno, che dovrà essere restaurata.
Proseguiamo il viaggio in autobus passando per la valle dell’Urubamba (affluente del Rio delle Amazzoni), sacra agli Inca.
Dove il paesaggio è particolarmente bello Ana Maria fa fermare il pullman e ci fa scendere per guardarci intorno e scattare qualche foto.
Attraversiamo i villaggi di Yucai, Calca, Pisac. In quest’ultimo ci fermiamo per visitare il ricco mercato di oggetti di artigianato. Io acquisto qui un ciondolo che raffigura il condor e un paio di orecchini simili.
Quando si riprende l’autobus pioviggina. Dopo il pranzo in un ristorante, Ana Maria ci conduce presso una famiglia di contadini che produce in casa la chicha, che è la birra peruviana. La padrona di casa ci offre in un vassoio dei bicchierini per l’assaggio della bevanda. Io l’assaggio malvolentieri, perché l’ambiente non è pulito. Nella stanza c’è la cucina annerita dal fumo, le pentole annerite e un gatto salta sul forno e lecca indisturbato una ciotola. Il pavimento è di terra battuta.Ana Maria, prima di bere, getta sul pavimento un po’ di chicha, in offerta alla Pachamama. E’ un gesto rituale che in Perù si ripete quotidianamente prima di mangiare o bere qualcosa.
Io e Mariola usciamo dalla cucina ed esploriamo il resto della casa. Davanti alla porta, sotto una tettoia, sono appesi a una cordicella tante pannocchie di mais di vari colori. Mariola ne stacca alcuni chicchi per portarseli a casa e farli seminare nella sua campagna.
In un altro ambiente rustico troviamo tanti porcellini d’India, un altro forno più grande e varie masserizie.Alle ore 16,00 arriviamo a Ollantaytambo, che è un complesso di costruzioni composto da un piccolo centro abitato e da una imponente costruzione difensiva. Questa, articolata a terrazze che si concludono in alto con massicce costruzioni rimaste incompiute, appartiene all’ultimo periodo della storia inca e testimonia la più alta perfezione raggiunta dalla tecnica della muratura litica, dovuta non solo ad esigenze strategiche, ma soprattutto alla concezione di importanza che la costruzione assume man mano che questa si avvicina al luogo più sacro e protetto, che è la sommità del monte.Ad Ollantaytambo si svolse una battaglia nel gennaio del 1537 tra le forze dell’imperatore Manco II ed una spedizione spagnola guidata da Hernando Pizarro nel corso della conquista dell’impero inca. L’esercito inca riuscì a bloccare gli spagnoli, che si ritirarono durante la notte a Cusco. Nonostante questa vittoria, l’arrivo di rinforzi per gli spagnoli obbligò Manco II ad abbandonare Ollantaytambo, che trovò rifugio nella regione boscosa di Vilcabamba, dove sopravvisse uno stato inca indipendente fino al 1572.I turisti più intraprendenti (sono tanti) si arrampicano fino a raggiungere la cima. Io e Mariola, temendo il soroche, ci limitiamo a guardare da sotto in su e giriamo nei dintorni tra negozi e bancarelle, in attesa che i nostri compagni di viaggio scendano dalla fortezza.La parte superiore della costruzione sembra toccare il cielo. Come in tutte le costruzioni inca, le porte, le finestre o le nicchie hanno forma trapezoidale; i grossi blocchi di pietra sono collocati perfettamente ad incastro.Io e Mariola trascorriamo parecchio tempo a chiacchierare con un giovane artigiano nel suo negozio: ci comprendiamo parlando noi in italiano, lui in spagnolo. Mentre parla, con le sue abili mani , un filo di metallo e una pinza crea una spilla col nome “Mariola” e la regala alla mia compagna.Terminata la faticosa visita, i nostri intraprendenti compagni di viaggio, con Ana Maria, ci raggiungono nella parte bassa della città, che attraversiamo insieme per riprendere il nostro autobus. Scattiamo qualche foto ancora ai passanti del luogo e lasciamo il centro abitato.

La nostra meta è la stazione ferroviaria di Ollantaytambo, dove prendereno il trenino per salire ad Aguas Calientes, da cui partono le escursioni per visitare le antiche e famose rovine di Machu Picchu.
Arriviamo alla stazione con un’ora di anticipo. Il trenino arriverà alle ore 19,00.
Ci sediamo sulle panchine in attesa, ben coperti per ripararci dal freddo.
Quando prendiamo posto sul treno è già buio e non vediamo il paesaggio.
Il viaggio dura un’ora e mezzo fino ad Aguas Calientes, dove ceniamo in un ristorante e pernottiamo in un albergo, che sembra incastonato in una montagna.

13° giorno – 28 ottobre mercoledì

                                                                                                                  Machu Picchu

Al risveglio mattutino, scosto le tendine della finestra per guardare il paesaggio che ieri sera si vedeva appena per l’oscurità. Si presenta ai miei occhi uno spettacolo mozzafiato: due alte montagne, dai fianchi ripidissimi, quasi addosso all’albergo e in basso il fiume Urubambascrosciante e spumeggiante.

Alle ore 7,30 saliamo su un autobus che ci porterà al sito archeologico di Machu Picchu.
La strada che percorriamo, stretta e sterrata, corre sul filo di un precipizio.
Le montagne scoscese, una accanto all’altra, sono inframmezzate da dirupi stretti, profondi e spaventosi. Dopo circa mezz’ora arriviamo in un posto in cui l’autobus non può più proseguire. Inizia la visita a piedi.

La giornata è splendida e lo scenario che si presenta ai nostri occhi, appena muoviamo i primi passi, è fiabesco. Riconosco la città di Machu Picchu per averla vista in varie foto e filmati. Ma la foto e i filmati sono di gran lunga limitati rispetto a quanto può abbracciare lo sguardo di fronte alla realtà: nella foto non si vede a 360 gradi l’anfiteatro dei monti verdeggianti che le stanno intorno e la custodiscono e non si vedono chiaramente i profondi dirupi che la circondano e che erano la sua migliore difesa naturale.
Arroccata su più di cento terrazze immerse nella selva tropicale, Machu Picchu sorge a 2850 metri di altezza, sopra la valle scavata dal fiume Vilcanota, su due picchi montuosi chiamati rispettivamente Huayna Picchu (la giovane montagna) e Machu Picchu (la vecchia montagna).
Quando la città fu abbandonata dagli inca, per motivi che non si conoscono, la sua ubicazione rimase sconosciuta per ben quattro secoli, entrando nella leggenda.
Secondo gli archeologi non era una normale città: costruita tra il 1450 e il 1470 in una zona considerata sacra, fu la residenza prediletta del sovrano Pachacutec e della più selezionata casta nobiliare.
Fu scoperta nel 1911 dallo storico americano Hiram Bingham che stava esplorando le vecchie strade inca della zona, alla ricerca dell’ultima capitale del grande impero sudamericano, Vilcabamba. Più tardi si convinse che Machu Picchu era quella che lui chiamava Vilcabamba. Invece Vilcabamba era nascosta nella giungla, a poche centinaia di metri da dove era arrivato lui durante le sue ricerche.

Il complesso di Machu Picchu è diviso in due grandi zone: la zona agricola, formata dall’insieme delle terrazze per la coltivazione, e la zona urbana, che è quella dove vivevano gli abitanti e dove si svilupparono le principali attività civili e religiose.

                                                                                                           Tempio del Sole
Il Tempio del Sole era probabilmente l’osservatorio astronomico principale della città: al centro dell’edificio semicircolare si trova infatti un altare dedicato a Inti (il Sole), mentre da una delle due finestre che si aprono sulla parete curva è possibile fissare con precisione il solstizio d’inverno basandosi sulla proiezione dell’ombra sulla “pietra altare” che si trova all’interno del tempio. L’altare era probabilmente un affioramento roccioso naturale, che venne recintato successivamente dal muro ricurvo. Gli Inca infatti, credevano che certe rocce fossero la pietrificazione di esseri soprannaturali e perciò le consideravano degne di culto.
La pietra di Intihuatana è una delle molte pietre rituali nel Sudamerica che indicano la posizione del sole durante il solstizio d’inverno. Al mezzogiorno il 21 marzo e il 21 settembre il sole si leva quasi sopra la colonna che non genera alcuna ombra. E’ un monolito alto 1,8 metri e sorge al centro di un tempio.
Percorriamo tutta la città in lungo e in largo, salendo e scendendo innumerevoli gradinate, fermandoci di tanto in tanto per osservare da vicino porte, sale, cortili, ascoltando le spiegazioni di Ana Maria, sotto il sole caldo, estivo.
Il momento critico per me arriva nel punto in cui è necessario, per proseguire, scendere una scaletta di pietra sull’orlo di un precipizio alla nostra sinistra. E’ così stretta che si deve scendere ad uno ad uno. Il precipizio mi fa ricordare il panico provato in Messico nel 2004 nella discesa dalla Piramide di Chichén Itzá. La scaletta di Machu Picchu non ha 90 gradini come il tempio messicano, ma una decina. Tuttavia la vista del precipizio mi impaurisce. A Chichén Itzá tenevo gli occhi chiusi e mi servivo di una grossa corda come guida. Ora non posso chiuderli, ma cerco di non guardare il vuoto, tenendo la mano sinistra come paraocchi e appoggiando la destra al muretto laterale destro.La visita alla città di Machu Picchu dura circa tre ore. Rimane da visitare un ponte.
Mariola, Rosalba ed io preferiamo fermarci a riposare. Non c’è niente di più confortevole che distendersi sull’erba verde dopo tanta fatica! Mariola, Rosalba ed io lo facciamo e qualcuno ci fotografa.
Vicino a noi sono anche Tatiana e il marito.
Ana Maria rimane con noi cinque e ci consiglia di iniziare la discesa sulla via del ritorno, per raggiungere la stazione degli autobus-navetta che trasportano i turisti ad Aguas Calientes, dove è prenontato il pranzo nel Ristorante Pizzeria Chaski. Gli altri del gruppo ci raggiungeranno dopo la visita al ponte inca.
Non attendiamo il ritorno degli altri compagni per pranzare. Ana Maria è seduta accanto a me e ne approfitto per conversare con lei. Noto ancora una volta che, prima di iniziare il pasto, lancia dal suo bicchiere alcune gocce di bevanda per terra, come aveva fatto nella casa contadina a Pisac. Le chiedo spiegazioni e Anna Maria mi dice che lei è profondamente credente nella Madre Terra (Pachamama), come tutti gli indigeni peruviani, e che l’offerta a lei è un atto dovuto, sia per ringraziarla del presente, che per ottenerne benevolenza per il futuro.
Durante il nostro pranzo arrivano gli altri compagni, di ritorno dal ponte inca, che si uniscono alla nostra tavola.
Ci rimane del tempo per gironzolare nella strada principale del villaggio. Poi tutti quanti ci avviamo alla vicina stazione dei treni e alle 16,30 partiamo per l’ultima stazione, Poroy.
La memoria della fotocamera di Maria Elena si è riempita a Machu Picchu e non rimane più spazio per l’ultima città del nostro viaggio, Cusco. Ma c’è ancora spazio in quella di Mariola.
Il viaggio di ritorno è affascinante: la luce del pomeriggio ci consente di stare affacciati ai finestrini per goderci lo straordinario paesaggio. La strada ferrata è molto stretta e costeggia il fiume Urubamba. In certi tratti è incassata tra le montagne che abbiamo la sensazione di poterle toccare sporgendo un braccio dal finestrino. Con la fotocamera di Mariola colgo l’azzurro trenino in curva, prima di entrare in una galleria.
                                                                                  Il trenino ci porterà a Poroy in quattro ore
Calata la sera e abbassatasi la temperatura, ci copriamo come se fosse inverno e passiamo il resto del tempo ora conversando piacevolmente, ora sonnecchiando fino alla stazione di Poroy, dove ci attende un autobus, che ci porta a Cusco.
Sono le ore 20,50. Andiamo subito a piedi al vicino ristorante “Valentina” per la cena e poi torniamo in albergo per il pernottamento.
14° giorno – 29 ottobre giovedì

Cusco

Alzatami di buon mattino, subito dopo colazione, mi collego a Internet con il computer dell’albergo per scrivere a casa e ricevere notizie. Ricevo una e-mail dall’agenzia di viaggi di Fabrizio Picone, il quale mi comunica che il volo Alitalia di ritorno Roma-Palermo è stato postergato di un’ora.
Alle ore 9,00 partiamo con il nostro autobus per la visita alla città di Cusco, capitale del grande Impero Inca in epoca preispanica. E’ con noi Ana Maria.
Cusco è la città abitata più antica di tutte le Americhe. Fu la capitale e la sede del governo del regno degli Inca e continuò ad esserlo nelle fasi iniziali dell’epoca imperiale, diventando la città più importante delle Ande e il principale centro culturale e religioso.
Per la sua antichità, il centro storico, che conserva molti edifici, piazze e strade di epoca preispanica, così come costruzioni coloniali, fu dichiarata Patrimonio dell’umanità nel 1983 dall’UNESCO.
Il primo luogo che visitiamo è il il Coricanchail santuario più importante intitolato a Inti, il dio Sole, nell’epoca inca (dal quechua, Quri Kancha che significa “giardino d’oro”). I muri e i pavimenti erano un tempo coperti da lastre d’oro e nel giardino vi erano statue d’oro. Gli spagnoli descrissero il tempio come “favoloso da non crederci”.
La Chiesa di Santo Domingo, che venne costruita nel sito usando le fondamenta del tempio che era stato distrutto dagli spagnoli nel XVII secolo, è un esempio di architettura dove il lavoro inca è stato incorporato nella struttura di un complesso coloniale. Diversi terremoti hanno danneggiato la chiesa, ma il basamento, costruito con blocchi di pietra incastrati tra loro, ha resistito efficacemente.

Dopo aver visitato anche la chiesa, accanto al convento, saliamo in autobus nella parte più alta di Cusco, a 3700 metri di altitudine, dove ci sono le rovine archeologiche di Sacsayhuaman, ungrandioso complesso militare formato da un triplice ordine di cinte murarie, lunghe trecento metri, realizzate con enormi massi di pietra, connessi con grande precisione. La muraglia principale è formata da pietre alte 5 metri, larghe circa 2,5 metri che possono pesare 350 tonnellate. Gli Inca progettarono Cusco con la forma di un puma, di cui Sacsayhuaman era la testa e le sue inespugnabili mura i denti. Cusco era il corpo del felino, mentre il Coricancha era la coda.

Prima di tornare in città saliamo ancora fino a 3765 metri di altitudine, dove visitiamo le rovine di Puca Pucara, una fortezza da cui gli Inca controllavano l’ingresso a Cusco. Percorriamo a piedi una strada in salita: il “soroche” si fa sentire. Non ho niente con me per combatterlo, tranne un tubetto di latte condensato, che mi era stato consigliato di portare in viaggio contro il mal di montagna. Succhio in parte la crema dal tubetto, in parte lo spalmo su una fetta di pane, che mangio per strada. Non ottengo alcun effetto. L’unico rimedio è quello di sedermi su un masso e riposarmi un poco prima di riprendere il cammino. Raggiunto finalmente l’autobus, ritorniamo nella parte bassa di Cusco.
Ana Maria ci fa visitare il quartiere di San Biagio, uno dei più pittoreschi della città. Le sue strade sono inerpicate e strette, con palazzi antichi costruiti su fondazioni incaiche.

Intorno alle ore 13,00 Ana Maria ci invita ad entrare in un pasticceria del quartiere di San Biagio, dove troviamo posto a qualche piccolo tavolo. Nelle vetrine è esposta una gran varietà di cibo, sia dolce che salata. Acquistiamo e mangiamo ciò che più ci aggrada e riprendiamo la piacevole passeggiata nel quartiere, nelle strade in discesa, fino ad arrivare nella bellissima Plaza de Armas, dove ci sono delle panchine invitanti. Seduti a riposare ammiriamo la Cattedrale di fronte a noi, la vicina Chiesa dei Gesuiti. La giornata è calda. Intorno alla piazza rivediano la corona dei monti che la circondano, dove si estendono le case.
Alle ore 15,00 circa io e Mariola preferiamo tornare in albergo a piedi per riposarci più comodamente, mentre gli altri vanno a visitare un museo di Cusco.

15° giorno – 30 ottobre giovedì

Stamattina mi sveglio presto e mi alzo per mettere in ordine la valigia. Mi sento fisicamente debole e, credendo erroneamente che sia l’effetto dell’altitudine, prendo subito mezza compressa di DIAMOX e mi metto sotto il getto caldo della doccia per rianimarmi. Ma ne esco più debole di prima. Cercando di non far rumore per non disturbare Mariola, che dorme ancora, scendo giù da sola a fare colazione e poi mi siedo sul divano della hall ad aspettare. Ieri sera avevo concordato con Maria Elena, Mariola, Valentina e Rosalba di trascorrere il tempo libero della mattinata nella visita al Museo Storico Regionale, sito nella casa dello scrittore e poeta cuschegno Garcilaso de La Vega, e di passare il resto del tempo in Plaza de Armas. Stamattina però me ne manca la voglia perché mi mancano le forze. Dico a Mariola, che mi ha raggiunto nella hall, che desidero tornare in camera a distendermi. Mi segue in camera intuendo in me un abbassamento della pressione causata dal DIAMOX. Arrivano in camera anche le altre compagne di viaggio. Mariola sente che i battiti del mio polso sono deboli e mi invita a prendere un integratore alimentare e a bere dei succhi di frutta. Con tali rimedi e col riposo mi riprendo e sono in grado di uscire come avevamo programmato.
Percorriamo a piedi le vie del centro storico osservando le case di abitazione, i negozi, la gente che passa. Rosalba fotografa un curioso tram, che pare d’altri tempi.

Alle 10,30 circa entriamo nel Museo Storico Regionale, sito nela casa dello scrittore inca Garcilaso de la Vega.

La casa di Garcilaso de la Vega si trova all’angolo delle vie Heladeros e Garcilaso. Costruita su una terrazza inca, è un esempio singolare di architettura coloniale. In essa ammiriamo ceramiche preincaiche, strumenti musicali, utensili inca e pregevoli pitture della scuola di Cusco.

Garcilaso de la Vega fu uno dei primi meticci del Nuovo Mondo.
Nato a Cusco nel 1539 da un conquistatore spagnolo e da una principessa inca, parlava sia il quecha che lo spagnolo.
Dopo la morte del padre si trasferì in Spagna, dove prese il soprannome di “El Inca” e dove rimase fino alla morte avvenuta all’età 77 anni.
Nel suo famoso libro “Comentarios reales de los Incas”, considerato il suo capolavoro, scrisse le storie che egli aveva sentito raccontare dai suoi parenti inca quando era bambino a Cusco.
Comentarios contengono due sezioni: la prima riguardante la vita degli Inca, la seconda la conquista spagnola del Perù.

Ritorniamo a Plaza de Armas e ci sediamo su una panchina, di fronte alla Cattedrale, sotto uno splendido sole. Tanti venditori si avvicinano a noi invogliandoci a comprare occhiali o souvenir. Ormai ne abbiamo comprati tanti e non siamo più interessate. Solo una bimba piccina è irresistibile nella sua innocente insistenza: ci offre animaletti fatti a maglia per una modestissima somma: li toglie ad uno ad uno da un saccheto e ce li porge. Io compro un’alpaca bianca per lasciarla contenta. Valentina vuole visitare l’interno della cattedrale, ma occorre pagare il biglietto in dollari. Non avendone va nella banca più vicina a cambiare gli euro. Anche Mariola vuole visitare l’interno e Valentina ripete l’operazione per lei. Io con Maria Elena e Rosalba preferiamo restare all’aperto in piazza, cambiando panchina. Ora ci troviamo di fronte alla bellissima Chiesa della Compagnia di Gesù: iniziata nel 1576 sopra le fondazioni del Amarucancha o palazzo del re inca Huayna Capac, è considerata uno dei più belli fra i barocchi coloniali del continente. La sua facciata è in pietra tagliata ed il suo altare è in pietra tagliata e rivestita di una lamina d’oro. Non entro nella chiesa perché non ho dollari per pagare il biglietto, ma riesco a dare una sbirciata all’interno.

Appena Mariola e Valentina escono dalla Cattedrale, accettiamo la proposta di Valentina di andare nel quartiere di San Biagio a mangiare qualcosa nella stessa pasticceria dove siamo state ieri con Ana Maria. Ma non tengo conto che ieri abbiamo percorso la strada in discesa: oggi la stessa strada la percorriamo in salita ed io più delle mie compagne soffro il mal di montagna e di tanto in tanto devo rallentare il passo o fermarmi a riposare.
Rivediamo con piacere il grande Palazzo reale inca con la pietra dai 12 angoli e mangiamo qualcosa nella pasticceria.
Per tornare all’Imperial Cusco Hotel, ripercorriamo la strada del ritorno, gettando l’ultimo sguardo a Plaza de Armas, per fissarne il fascino nella memoria.

Alle ore 13,30 l’autobus ci porta all’aeroporto e dopo le operazioni di imbarco, alle ore 16 iniziamo il volo per Lima.
Il volo dura un’ora. Il cielo sgombro di nuvole ci permette di regalarci l’ultima visione delle Ande: le cime più alte sono coperte di ghiaccio. Mai in vita mia ho visto tante montagne come in Perù. Ora scompaiono dalla nostra vista sotto una coltre di nuvole bianche, poi riappaiono; poi le cime più alte bucano le nuvole e poi ancora vediamo gli altipiani desertici.
Alle ore 17 appare Lima, grande, pianeggiante e poi l’Oceano Pacifico. L’aereo scende ed io improvvisamente mi sento meglio: è sparita la stanchezza e posso respirare a pieni polmoni. Mi vengono in mente i versi di Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle” (ultimo canto dell’Inferno).
Ritorniamo nello stesso albergo del primo giorno a Lima. La sera cena con spettacolo folcloristico in un bel ristorante del centro. E’ presente l’assistente di Mundo Escondido, Cintia Mimbela, con la quale scambio un po’ di conversazione, ognuno nella propria lingua.

16° giorno – 31 ottobre sabato
Stamattina la guida di Lima, Dora, ci accompagna presso una città preincaica a circa 31 km. a sud di Lima, presso la fertile valle del fiume Lurin, dove si innalza un antico oracolo Pachacamac, il famoso centro cerimoniale che tanto stupore causò agli spagnoli e senza alcun dubbio anche agli stessi Incas, una volta arrivati nella costa. Costruito interamente con impasto di argilla sabbia e paglia essiccata al sole, era considerato, insieme con Cusco, il principale luogo di culto del Perù preispanico. Gli Huari costruirono qui un tempio dipinto con i colori del giallo, che rappresenta il sole sorgente, e del rosso, che rappresenta il tramonto. Il tempio in origine arrivava a sette piani. Attualmente i piani sono quattro. Dal quarto piano allarghiamo lo sguardo all’oceano, alla verdeggiante valle di Laurin, al deserto e alle baraccopoli di Lima. Vediamo a distanza la “Casa delle donne scelte”, ricostruita per l’80%, dove venivano allevate le ragazze nelle varie mansioni, al servizio dell’imperatore inca: le concubine, le tessitrici, le donne da sacrificare agli dei, ecc.

Concludiamo la nostra giornata a Lima con la visita all’interessantissimo museo privato “Larco Herrera” dove ammiriamo stupiti una collezione di ceramiche delle culture del nord, come Vicus, Mochica e Chimù, che forse è la più grande del mondo. Oltre alle 50 mila ceramiche sono esposti mummie, manti, oggetti d’oro.
In una sala speciale sono esposte ceramiche erotiche con motivi che rappresentano le abitudini sessuali degli antichi peruviani.

Ritorniamo in albergo e restiamo in attesa dell’orario per andare all’aeroporto e rientrare in Italia. Consideriamo concluso il nostro viaggio. Mi restano in tasca gli ultimi soles e pochi dollari che vorrei spendere a Lima, prima di tornare a casa; perciò vado a guardare in un vicino negozietto di souvenirs. Il ragazzo che sta dietro il banco mi indica alcuni oggetti che mi lasciano indifferenti; poi scopro, come per incanto, due vasi di ceramica che imitano quella mochica e li acquisto con grande gioia. Non ce ne sono altri nel negozio. Tornata in albergo, li mostro esultante a Mariola, che ne vorrebbe uno simile. Torniamo dal ragazzo per chiedere dove potremmo trovare la ceramica mochica. A noi si uniscono Maria Elena, Valentina e Rosalba. Troviamo il negozio indicatoci e la ceramica desiderata. Mariola sceglie il suo vaso ed io ne acquisto altri due, pagando con gli euro. Siamo molto soddisfatte degli ultimi acquisti.

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31 ottobre ore 16,30 – prtenza per l’aeroporto di Lima
21,05 – decollo da Lima per Madrid
1 novem. ore 08,10 – (ora peruviana) atterraggio a Madrid (ora locale = 14,10)
16,50 – da Madrid decollo per Roma – atterraggio a Roma ore 22,25;
22,25 – decollo da Roma per Palermo – atterraggio a Palermo ore 23,00

2 novem. 1,00 – rientro a Sciacca
Antonietta Cinà
Altre foto del viaggio sul blog niettacina.blogspot.it

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